Tumori femminili e preservazione della fertilità: si può fare. (O no?)

di Valentina Murelli e Maria Cristina Valsecchi

“Avevo 26 anni quando, nel 2015, mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin. Io sapevo che, prima di iniziare le terapie per un tumore, è possibile attuare pratiche di preservazione della fertilità, ma sul momento, abbattuta da mesi di malessere e frastornata dalla diagnosi, non ci ho pensato, convinta che se ne sarebbe occupato l’oncologo. Ricordo di aver pensato saprà quello che fa”.

E invece forse non lo sapeva così bene, perché la storia di Elena (nome di fantasia) non è esattamente la storia di quello che si dovrebbe fare in un caso come il suo. “Alla fine l’oncologo mi ha avvisata della possibilità che le terapie a cui dovevo sottopormi compromettessero la mia fertilità il giorno prima dell’inizio della chemioterapia. E non c’è stato il tempo di accedere a un percorso di crioconservazione degli ovociti o del tessuto ovarico, le tecniche considerate più efficaci per la preservazione della fertilità nei casi come il mio”.

Oggi Elena è serena: ha sconfitto la sua malattia, ha effettuato durante la chemioterapia trattamenti con farmaci che, mettendo a riposo le ovaie, aiutano a proteggerle dagli effetti tossici degli antitumorali, e confida che questo possa darle comunque qualche chance nel caso in cui decida di provare ad avere un figlio. Intanto, però, per aiutare e sostenere altre donne che si trovano nella situazione che lei ha vissuto qualche anno fa, Elena è diventata volontaria particolarmente attiva dell’associazione Gemme Dormienti Onlus (1), che si occupa proprio di tutela della fertilità delle pazienti oncologiche e di informazione sul tema della preservazione rivolta sia a operatori sanitari sia al grande pubblico. “Perché purtroppo”, ci dice, “sono ancora molte le donne con un tumore che non sono informate sull’argomento e che non vengono adeguatamente accompagnate in un percorso di preservazione della fertilità dopo una diagnosi di cancro”.

I tumori femminili in età fertile

Tante donne ammalate di tumore ricevono la diagnosi quando sono ancora giovani (2), in età fertile. Si tratta soprattutto di tumori mammari, ginecologici ed ematologici, leucemie e linfomi, come quello di Elena. “Leucemie e linfomi sono i più frequenti durante l’infanzia e tra i 20-30 anni, mentre sopra i 30-35 anni il tumore femminile più diffuso è sicuramente il tumore al seno”, afferma Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di Fertilità e Procreazione in Oncologia dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano.

Grazie a trattamenti tempestivi e più efficaci, la grande maggioranza di queste pazienti supera la malattia e ha ancora davanti a sé una vita da vivere, una vita di cui fanno parte anche i progetti riproduttivi: sempre più spesso le donne che affrontano un tumore considerano la possibilità di avere un giorno dei figli e la prospettiva le aiuta anche nel presente come spinta verso la guarigione.

“Quando scopri la malattia, come nel mio caso, a soli 30 anni, quale idea può rappresentare al meglio la proiezione nel futuro se non la nascita di una nuova vita?”, osserva Marta. “È un modo per rimanere ancorati alla speranza”. Anche Marta è un nome di fantasia. Lei e altre testimoni che hanno accettato di condividere le loro esperienze fanno parte dell’Associazione aBRCAdabra Onlus (3), nata per sostenere i portatori di mutazioni genetiche BRCA che predispongono prevalentemente al cancro al seno e all’ovaio.

Un desiderio realizzabile

Oggi il desiderio di maternità dopo la guarigione si può realizzare in una percentuale significativa di casi, senza maggiori rischi per la donna e per i suoi futuri figli. Secondo una revisione della letteratura scientifica (4) coordinata da Matteo Lambertini, ricercatore universitario in oncologia medica presso l’Università di Genova – IRCCS Policlinico San Martino, dal 30 al 50% delle donne che cercano un figlio dopo un tumore al seno ha successo. I bambini nati da queste gravidanze hanno il 45% di probabilità in più di nascere pretermine e il 50% di probabilità in più di basso peso alla nascita, ma non è stato rilevato per loro un aumento significativo del rischio di difetti congeniti, né di altre complicazioni durante l’attesa o il parto. E sono rassicuranti anche i dati sul rischio di recidiva del tumore dopo la gravidanza.

“Gli studi internazionali più recenti mostrano che le donne con tumore della mammella che dopo le cure oncologiche, con gli opportuni accorgimenti e nei tempi concordati fra oncologo e ginecologo esperto, affrontano una gravidanza, a parità di condizioni con pazienti che decideranno di non averla, hanno una prognosi migliore nel corso della vita”, dice Mariavita Ciccarone, presidente di Gemme Dormienti Onlus e ginecologa dell’Ospedale San Carlo di Nancy di Roma.

Terapie nemiche della fertilità

L’ostacolo da superare per realizzare il progetto di avere dei figli dopo la malattia è la terapia farmacologica antitumorale, che salva la vita ma ha effetti tossici sulle ovaie. “I chemioterapici sono citotossici, cioè danneggiano le cellule alterando il loro DNA, in particolare quelli che appartengono alla classe degli agenti alchilanti, che sono compresi nella maggioranza degli schemi terapeutici”, dice Lambertini.

Attaccando il DNA, gli agenti alchilanti inducono il suicidio delle cellule che si moltiplicano rapidamente, come quelle tumorali, ma anche quelle di altri tessuti, per esempio del midollo osseo, dei bulbi piliferi e delle ovaie.

“Altre armi utilizzate nel trattamento di alcuni tipi di cancro al seno sono i farmaci ormonali, efficaci contro i tumori la cui crescita viene stimolata dagli ormoni estrogeni e progestinici”, prosegue Lambertini. “I farmaci ormonali contrastano l’azione di questi ormoni. Non hanno effetti tossici sulle ovaie, ma sono teratogeni, cioè in caso di gravidanza contemporanea all’assunzione possono produrre malformazioni nell’embrione. Fintanto che è in terapia ormonale, quindi, la paziente non può cercare una gravidanza e di solito la terapia dura 5-10 anni. Nel frattempo le ovaie invecchiano e la probabilità di riuscire a concepire spontaneamente al termine del trattamento diminuisce. Quindi le donne che desiderano lasciarsi aperta la possibilità di una gravidanza dopo la guarigione, devono pensarci prima e proteggere le ovaie e gli ovociti”.

Come proteggere le ovaie e preservare la fertilità

Come si proteggono le ovaie dall’azione tossica dei chemioterapici? “Mettendole a riposo, cioè usando dei farmaci che sospendono temporaneamente e in modo reversibile la loro attività, i cosiddetti analoghi del GnRH”, spiega Lambertini. “Si somministrano per iniezione intramuscolare o sottocutanea una volta al mese e inducono una menopausa farmacologica temporanea. In questo modo si preserva la funzione endocrina delle ovaie, cioè la loro capacità, una volta terminato l’effetto della menopausa farmacologica, di tornare a produrre estrogeni e progesterone, risparmiando alla paziente l’eventualità di una menopausa definitiva provocata dalla chemioterapia, che ha conseguenze negative per la salute generale, come l’aumento del rischio cardiovascolare e la perdita di calcio delle ossa. Gli analoghi del GnRH, però, non sono altrettanto efficaci nel preservare l’integrità degli ovociti e dunque la fertilità. Al termine del trattamento, le ovaie hanno maggiori probabilità di tornare in attività, le mestruazioni che si erano interrotte di riprendere, ma non è detto che la donna sia ancora fertile, perché i suoi ovociti potrebbero essere stati danneggiati. Per evitare che questo accada, l’unico modo è indurre la maturazione di alcuni ovociti e congelarli prima di iniziare la chemioterapia, per tentare una fecondazione assistita dopo la guarigione, oppure in alcuni casi congelare porzioni di tessuto ovarico che dopo la guarigione possono essere nuovamente impiantate perché producano ovociti maturi. È importante chiarire che la protezione delle ovaie con gli analoghi del GnRH non è alternativa alla crioconservazione di ovociti o tessuto ovarico. D’altro canto, anche alla donna che ha messo al sicuro una riserva di ovociti per un eventuale uso futuro conviene evitare una menopausa precoce e i danni alla salute generale che questa comporta”.

Il congelamento del tessuto ovarico è una tecnica più recente rispetto al congelamento di ovociti maturi e non garantisce ancora le stesse probabilità di successo. Per questo oggi è rivolta solo alle pazienti che ricevono la diagnosi di tumore in età prepubere, quando è impossibile stimolare la produzione di ovociti maturi, oppure nei casi in cui c’è poco tempo per provvedere alla preservazione della fertilità, perché la paziente deve iniziare immediatamente la terapia antitumorale. “Per organizzare il prelievo del tessuto ovarico bastano un paio di giorni”, spiega Lambertini, “mentre per stimolare la maturazione di un numero adeguato di ovociti e prelevarli occorrono circa due settimane. Di solito, la donna che riceve la diagnosi di tumore al seno ha qualche settimana di tempo prima di avviare la chemioterapia e può sottoporsi alla stimolazione e al prelievo, ma ovviamente per evitare ritardi è necessario che l’equipe che si occupa della preservazione della fertilità agisca di concerto con l’equipe oncologica”.

Percorsi virtuosi e percorsi tortuosi

C’è chi è fortunata e incontra una realtà ben organizzata, come Giorgia. “L’oncologo a cui sono stata affidata mi ha parlato il giorno stesso di tutte le possibilità per la preservazione della fertilità e mi ha fissato una visita al centro per la riproduzione assistita del policlinico due ore dopo”, racconta. “Ho iniziato subito il percorso per prelevare gli ovuli e poco dopo la terapia per indurre farmacologicamente la menopausa per preservare la funzionalità ovarica. Sono stati rispettati sia il mio bisogno di essere ancora una donna sia i tempi imposti da una terapia urgente”.

“È esattamente quello che dovrebbe accadere nella situazione ideale”, commenta Peccatori. “Dopo la diagnosi di tumore, la donna dovrebbe ricevere una consulenza dall’esperto di oncofertilità, non necessariamente un medico ma anche un infermiere o un counselor, che spieghi quali sono le opzioni, quali sono i tassi di successo anche in relazione all’età, ai desideri della paziente e al programma di cura, perché non tutti i programmi di cura hanno la stessa tossicità. Se il suo desiderio è accedere alla preservazione della fertilità, dovrebbe subito essere indirizzata a un centro di PMA pubblico, dove ricevere una stimolazione ovarica per la raccolta e conservazione degli ovociti, o sottoporsi a prelievo di tessuto ovarico”.

Come ci ha raccontato Elena, però, non sempre funziona così. A volte manca la consulenza specifica, o l’informazione viene data con tempi inadeguati. “Al momento questo rimane il collo di bottiglia principale, ma ci sarebbe un modo abbastanza semplice per risolverlo, e paradossalmente ce lo ha insegnato la pandemia di Covid-19”, afferma Peccatori. “In quest’anno abbiamo capito che la telemedicina – cioè la possibilità di fare ‘visite’ e consulenze con piattaforme digitali – funziona anche per la medicina riproduttiva. Si tratta di fare uno sforzo per ottimizzare i risultati che abbiamo già raggiunto, per portare informazione e consulenza a più donne possibili”.

Altre volte l’informazione viene data ma non c’è sostegno pratico alla donna nelle fasi successive. “L’incombenza di coordinare le cure oncologiche e quelle per la fertilità non dovrebbe essere lasciata alla paziente, che nella maggior parte dei casi si trova ad affrontare la procedura in un periodo molto difficile di accettazione della malattia e spaesamento nel sistema sanitario”, dice Annalisa, un’altra testimone di aBRCAdabra. E in alcune zone del Paese, soprattutto al sud, a queste difficoltà si aggiunge la carenza di centri pubblici per la PMA: le strutture sono quasi tutte private (5).

Quel che serve è predisporre percorsi integrati pubblici di diagnosi e assistenza, come per altro previsto da un documento del Ministero della Salute sul Percorso diagnostico assistenziale per i pazienti oncologici che desiderano preservare la fertilità, approvato nel 2019 dalla Conferenza Stato-Regioni (6). Ogni Regione è chiamata a recepire e organizzare il proprio percorso, ma sono ancora pochissime ad averlo fatto. Tra quelle che si sono portate più avanti, c’è la Regione Lazio, il cui percorso prevede che gli oncologi attivi in tutte le strutture regionali informino della possibilità di preservare gli ovociti le donne in età fertile al momento della diagnosi e mettano in contatto quelle interessate con il Centro di riferimento regionale per la crioconservazione dei gameti femminili presso l’Ospedale Sandro Pertini di Roma (7). “Qui prendiamo in carico la paziente entro 72 ore dalla comunicazione dell’oncologo e la sottoponiamo immediatamente agli esami necessari per valutare la sua riserva ovarica e la fattibilità della preservazione”, spiega Rocco Rago, direttore dell’UOC Fisiopatologia della Riproduzione e Andrologia dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma e del Centro di Riferimento Regionale Oncofertilità – Banca Ovociti del Lazio. “La stimolazione per far maturare gli ovociti può essere avviata in qualunque giorno del ciclo naturale e l’intera procedura, fino al prelievo, dura 10-12 giorni. Se c’è più tempo a disposizione, si può ripetere il ciclo di stimolazione e raccogliere più ovociti per aumentare le probabilità di successo nel momento in cui la donna cercherà una gravidanza”.

Il congelamento degli embrioni

Teoricamente ci sarebbe un’altra strada per preservare la fertilità delle donne che ricevono una diagnosi di tumore, una strada che in Italia non è accessibile, ma che in altri paesi è considerata tra le alternative percorribili, e cioè fare la stimolazione ovarica, raccogliere gli ovociti maturi, procedere alla loro fecondazione in vitro con il seme del partner e congelare gli embrioni anziché gli ovociti. Secondo Giulia Scaravelli, responsabile del Registro Nazionale PMA dell’Istituto Superiore di Sanità, è una strada che potrebbe offrire una probabilità maggiore di riuscita e che si potrebbe offrire alle donne più giovani con prognosi migliore . “Si conoscono bene i vantaggi della crioconservazione degli embrioni nella popolazione generale, che includono il suo tasso di successo relativamente alto e l’esistenza di protocolli ormai ben testati”, afferma Scaravelli. Lo dicono anche gli ultimi dati (8) disponibili del Registro nazionale PMA, riferiti al 2018, secondo i quali a fronte del 16,9% di gravidanze ottenute su ciclo iniziato con embrioni ottenuti da ovociti crioconservati, c’è stato un 30,6% di gravidanze ottenute su ciclo iniziato con embrioni crioconservati (dati riferiti a cicli senza donazione di gameti). Non a caso, le linee guida 2020 dell’ESHRE (European Society of Human Reproduction and Embryology) (9A) e quelle dell’ESMO (European Society of Medical Oncology) (9B) affermano che alle donne con un partner dovrebbe essere offerta, oltre alla possibilità di crioconservare ovociti non fecondati, la possibilità di tentare, con la metà degli ovociti prelevati, anche la crioconservazione degli embrioni. In Italia, però, questo non si può fare, per le restrizioni sul congelamento degli embrioni poste dalla legge 40 del 2004 sulla regolamentazione della PMA. Come ricordano anche le recentissime Linee guida AIOM (10) (Associazione Italiana di Oncologia Medica) sulla preservazione della fertilità nei pazienti oncologici, la legge italiana prevede infatti che l’accesso alla fecondazione in vitro sia consentito solo alle coppie con accertata infertilità. Ma è davvero difficile non pensare che, in una paziente che andrà incontro a un trattamento oncologico, l’infertilità non sia già in essere.

Il rischio e la percezione del rischio

A fare da freno all’applicazione delle tecniche di preservazione della fertilità c’è il timore, da parte delle pazienti e anche di alcuni medici, che la stimolazione farmacologica necessaria per far maturare gli ovociti da prelevare possa compromettere la prognosi oncologica, in particolare delle donne con tumori sensibili agli ormoni sessuali femminili.

“Il mio chirurgo senologo mi ha detto subito di essere contrario alla crioconservazione, ritenendola troppo pericolosa per me. Questo mi ha spaventata anche un po’”, racconta Nicoletta. “Per di più mi sono sentita fuori luogo, come se fossi matta ad avere altri pensieri oltre a quello di salvarmi la vita”.

“Negli ultimi cinque anni è stata pubblicata una serie di dati molto tranquillizzanti (11A) (11 B) (11 C)”, replica Peccatori. “Dicono che la stimolazione ovarica non aumenta il rischio di recidiva neanche nei tumori ormono-responsivi. Certo, ci possono essere aree che hanno ancora bisogno di ricerca, per esempio c’è discussione su quanto sia sicuro fare stimolazione ovarica in donne che hanno ancora il tumore in sede e devono affrontare la chemioterapia preoperatoria (neoadiuvante) per far diminuire le dimensioni del tumore prima dell’intervento. In generale, però, ritengo superato il tema della sicurezza della stimolazione, che per altro viene eseguita con protocolli ad hoc”.

Le donne predisposte

La preservazione degli ovociti non comporta rischi aggiuntivi neppure per le donne portatrici di mutazioni BRCA. “Oltre ad essere predisposte al tumore al seno, alcune di loro sono ad alto rischio di sviluppare anche tumori all’ovaio”, spiega Alberta Ferrari, chirurga senologa della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. “Pertanto a queste donne si raccomanda l’asportazione preventiva delle ovaie e delle tube a un’età compresa tra i 35 e i 45 anni, a seconda del rischio individuale. Chi di loro ha progetti riproduttivi dovrebbe programmare le gravidanze prima dei 35 anni, oppure preservare gli ovociti da utilizzare più avanti per far ricorso a fecondazione assistita. La conservazione degli ovociti è particolarmente indicata in quelle che ricevono una diagnosi di tumore al seno e in quell’occasione scoprono di essere portatrici di una mutazione BRCA, ma anche le donne ancora sane che sanno di essere predisposte dovrebbero avere la possibilità di preservare gli ovociti in vista di un intervento preventivo di asportazione. In Italia, al momento, questa opzione, cioè la conservazione degli ovociti delle donne sane che programmano un intervento preventivo, non è rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale. È una questione su cui si batte l’associazione aBRCAdabra Onlus, di cui fanno parte donne positive ammalate o ancora sane. Si preferisce invece evitare la crioconservazione di tessuto ovarico, per le portatrici di mutazioni BRCA, perché c’è un rischio significativo che il tessuto congelato e destinato a essere di nuovo impiantato contenga cellule tumorali”.

Alle donne con mutazione BRCA, la preservazione degli ovociti offre un ulteriore vantaggio. “Al momento di cercare una gravidanza possono sottoporre gli embrioni prodotti con gli ovociti conservati a diagnosi preimpianto e impiantare solo quelli che non hanno ereditato la mutazione”, aggiunge Lambertini.

Ancora una volta, per decidere consapevolmente è necessario essere informate di tutte le possibilità. “Non volevo avere il dubbio”, racconta Sara, “che i miei figli avessero la mia mutazione, quella che mi ha portato via mamma, nonna e cugina… per questo ho deciso a malincuore di non fare la preservazione. In generale mi ritengo soddisfatta da tutte le informazioni ricevute sulla crioconservazione, ma l’unica cosa omessa, o forse me la sono persa io per lo stato di agitazione in cui mi trovavo dopo la diagnosi, è che si può evitare la trasmissione del gene mutato”.

Le scelte delle donne

Che cosa vogliono le donne in età fertile che ricevono una diagnosi di tumore al seno? Come si pongono di fronte alla prospettiva di preservare la fertilità in vista di possibili gravidanze future? Quante sono interessate alla crioconservazione degli ovociti? E quelle che rinunciano, perché lo fanno?

Per rispondere a queste domande, Lambertini e colleghi hanno avviato lo studio PREFER-FERTILITY (12), arruolando donne di età compresa tra 18 e 45 anni neo-diagnosticate, con un tumore al seno allo stadio iniziale e dunque con buone prospettive di guarigione. “Più del 90% delle volontarie si è detto preoccupato del rischio di andare incontro a menopausa precoce a causa della chemioterapia”, afferma l’oncologo, riassumendo i risultati preliminari della ricerca. “Il 90% ha deciso di assumere analoghi del GnRH per evitare la menopausa prcoce indotta dalla chemioterapia. Più del 30% ha consultato il ginecologo per decidere dell’eventuale conservazione degli ovociti, ma solo poco più del 10% ha intrapreso quella strada. La ragione principale per declinare l’offerta di preservare la fertilità è stata la volontà di non avere figli o non averne altri. Tra quelle che avrebbero voluto figli, chi ha rifiutato la crioconservazione lo ha fatto soprattutto per il timore che la stimolazione ovarica e un eventuale rinvio della chemioterapia per fare la stimolazione potessero compromettere l’esito della lotta al tumore, oppure perché non se la sentiva di affrontare un trattamento impegnativo a fronte di probabilità relativamente basse di successo di una futura gravidanza con ovociti scongelati, pari al 20-50% a seconda dell’età”.

“Certo”, riconosce Ciccarone, “preservare non significa avere la garanzia al 100% di avere un figlio, perché nessun essere umano ha certezza assoluta di procreare. Preservare significa però mettere da parte un tesoro che potrà essere utile all’occorrenza e cioè dopo la guarigione”. In Italia, i numeri del fenomeno sono ancora bassi, ma rappresentano un timido segnale positivo. Da quanto ci racconta Giulia Scaravelli, i dati pubblicati raccontano che finora nel nostro Paese sono state ottenute da scongelamento di ovociti in pazienti oncologiche 15 gravidanze e 9 bambini nati vivi e da reimpianto di tessuto ovarico, sempre in pazienti oncologiche, 5 gravidanze e 3 bambini nati vivi. “È anche vero però – ci anticipa – che i dati sui nati sono in aumento” e che parliamo di tecniche recenti per cui molte donne che hanno effettuato la crioconservazione non sono ancora arrivate a chiedere di poter utilizzare gli ovociti o il tessuto ovarico congelati.

Se bene informata, la donna ha gli strumenti per prendere la sua decisione in piena consapevolezza, che sia un sì o un no, come quello di Renata. “L’oncologa mi ha subito parlato della questione della conservazione degli ovuli. Però io non ero interessata”, racconta. “I figli non erano più nella mia testa, ho 40 anni… Qualche giorno dopo sono andata dal medico di base e anche la dottoressa mi ha detto che c’era questa opzione. L’oncologa poi me l’ha ribadito prima di iniziare la chemio. Insomma, hanno verificato in tutti i modi che la cosa non mi interessasse”.

“Ci sono donne riluttanti perché non sono bene informate, altre che arrivano dall’oncologo già con un programma di preservazione della fertilità, ma dovrebbe essere compito del medico coinvolgere la paziente giovane in questi percorsi”, osserva Peccatori.

L’informazione lascia ancora a desiderare

“Oggi sul tema dell’oncofertilità c’è molta più attenzione e consapevolezza di un tempo”, dice Lambertini. “Tutte le linee guida nazionali e internazionali dicono che il medico deve affrontare la questione con la paziente. Se non lo fa e la donna non informata perde la possibilità di avere figli, il medico rischia anche conseguenze legali. Ciò nonostante, è ancora possibile imbattersi in un professionista poco attento e quindi bisogna continuare l’opera di sensibilizzazione, non solo degli operatori sanitari ma anche delle pazienti, che dovrebbero sollevare la questione se il medico trascura di farlo”.

È quello che fa l’Istituto Superiore di Sanità, Registro Nazionale PMA, che dal 2008 organizza in collaborazione con le principali società scientifiche del settore corsi specifici per operatori sanitari in tutte le regioni italiane (e non solo nelle grandi città ma anche nei centri più piccoli), per promuovere la cultura della preservazione della fertilità. E che alcuni anni fa, in collaborazione con l’Associazione italiana malati di cancro (Aimac) ha pubblicato un opuscolo (anche in versione pdf scaricabile) per il pubblico, intitolato Madre dopo il cancro e preservazione della fertilità (13). Ed è quello che fa anche un’associazione come Gemme Dormienti Onlus. “A mio parere, il nodo da sciogliere è proprio nella formazione dei medici”, afferma Ciccarone. “Per questo, in collaborazione con l’Università “Sapienza” di Roma, organizziamo dal 2015/2016 una Scuola di Alta Formazione in Oncofertilità, con lo scopo di formare specialisti super esperti della materia”.

Una rete con troppi buchi

Il problema non è solo la carenza di informazione. Il servizio di preservazione della fertilità deve essere poi garantito alle pazienti che decidono di intraprendere questa strada. Come è organizzata nel nostro Paese la rete delle strutture che offrono questo servizio?

La gratuità della procedura di stimolazione ovarica per ottenere gli ovociti da congelare è garantita dal 2016, dalla determina AIFA n.1073/2016 (14), che riguarda “le donne affette da patologie neoplastiche che debbano sottoporsi a terapie oncologiche in grado di causare sterilità transitoria o permanente con l’intento ultimo di perseguire un obiettivo di guarigione dal cancro che preveda la preservazione di tutte le funzioni vitali, incluse la fertilità ed il desiderio di procreazione”.

Ma quanti sono effettivamente i centri che effettuano questo servizio? Per rispondere a questa domanda, l’Istituto Superiore di Sanità, con il Registro Nazionale della Procreazione Medicalmente Assistita ha avviato un censimento fra le strutture di PMA di II e III livello per individuare quelle nelle quali si effettua attività di preservazione della fertilità nei pazienti oncologici. Nel 2017 hanno risposto al censimento 73 centri su 195 e una bio-banca del Tessuto Ovarico (BTO), di cui 4 non effettuavano preservazione della fertilità nei pazienti oncologici, mentre altri 3 hanno cessato l’attività in seguito. Al momento, quindi, risultano in Italia 66 centri di PMA di II e III livello che effettuano crioconservazione per la preservazione della fertilità in pazienti oncologici, più una BTO. Di questi, circa la metà sono pubblici o privati convenzionati. Sulla carta è una situazione discreta, con almeno un centro per regione (a eccezione di Valle d’Aosta, Marche e Molise, che non ne hanno), ma come abbiamo visto i centri da soli non bastano. Serve anche, ed è fondamentale, il coordinamento tra queste strutture e i centri oncologici.

“Non possiamo certo aspettarci che tutti gli ospedali abbiano questo genere di organizzazione, anche perché le donne interessate alla preservazione non sono tantissime e una struttura deve avere esperienza per funzionare in modo efficace”, commenta Lambertini. “Potrebbero bastare pochi centri di oncofertilità in ogni Regione, a patto che tutti i centri oncologici indirizzino le pazienti interessate alla struttura di riferimento più vicina. Di certo le donne non dovrebbero essere costrette a viaggiare per lunghe distanze”.

Proprio per rispondere a questa necessità, il 21 febbraio 2019 è stato siglato l’Accordo tra il Governo, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano sul documento “Tutela della fertilità nei pazienti oncologici” per la definizione di un percorso diagnostico assistenziale (PDTA) per pazienti oncologici che desiderino preservare la fertilità” di cui abbiamo parlato.

Sapere come funziona il dialogo tra centri oncologici e centri di fertilità oggi nel nostro paese è molto difficile, ma nel prossimo futuro le cose dovrebbero migliorare. “Come Registro nazionale PMA – conclude Scaravelli – abbiamo lavorato negli anni per sviluppare un nuovo sistema di raccolta dati che tenga conto anche di questi aspetti e che è attualmente in fase pilota (lo stanno sperimentando grandi centri come il Policlinico Sant’Orsola di Bologna e l’Ospedale Sant’Anna di Torino). Presto sarà disponibile online e ci darà presto dati più esaustivi”.

Come spesso accade in Italia, la sensazione generale è che qualcosa si stia muovendo, ma che molto ancora dipenda dalla fortuna dei singoli. Di trovarsi in una regione anziché in un’altra, per esempio, o di incontrare o meno un medico attento anche a questi aspetti.

“Mi sono chiesta tante volte: perché ho dovuto penare così tanto? Perché mi sono dovuta informare da sola? Perché nessuno mi ha accennato a questa possibilità?”, dice Roberta, che è riuscita con caparbietà a far valere i suoi diritti. “Poter fare la crioconservazione mi ha dato una forza incredibile, mi è sembrato di vedere una luce in fondo al tunnel. L’ho fatta e poi mi sono dedicata alle mie cure con positività e tanto coraggio. Non so come andrà a finire, spero tanto un giorno di poter utilizzare i miei ovuli e spero con tutto il cuore che venga offerta un’informazione adeguata e completa a tutte le donne in età fertile che ricevono una diagnosi di tumore”.

Bibliografia

1. https://www.gemmedormienti.com/

2. Associazione Italiana di Oncologia Medica, Associazione Italiana Registri Tumori, “I numeri del cancro in Italia – 2020”

3. http://www.abrcadabra.it/

4. E. Blondeaux, M. Perachino et al, “Chances of pregnancy after breast cancer, reproductive and disease outcomes: A systematic review and meta-analysis”, San Antonio Breast Cancer Symposium 2020, Abstract GS3-09.

5. Registro Nazionale Italiano della Procreazione Medicalmente Assistita https://w3.iss.it/site/RegistroPMA/PUB/Centri/CentriPma.aspx

6. Conferenza Stato – Regioni, “Tutela della fertilità nei pazienti oncologici per la definizione di un percorso diagnostico assistenziale (PDTA) per pazienti oncologici che desiderano preservare la fertilità” in data 21 febbraio 2019.

7. Ospedale Sandro Pertini – Centro di Riferimento Regionale Oncofertilità –  Banca Ovociti tel 06.41433975, email mailto:sterilitaeandrologia@aslroma2.it

8. Registro Nazionale Italiano della Procreazione Medicalmente Assistita, “Report dell’attività – 2018

9A. ESHRE, “Female Fertility Preservation. Guideline of the European Society of Human Reproduction and Embryology”, 2020

9B. M. Lambertini, F. A. Peccatori et al, “Fertility preservation and post-treatment pregnancies in post-pubertal cancer patients: ESMO Clinical Practice Guidelines”, Annals of Oncology, 31 (2020) pp. 1664-1678

10. Associazione italiana di oncologia medica, Linee guida, “Preservazione della fertilità nei pazienti oncologici”, 2020

11A. J. Kim, V. Turan et al, “Long-Term Safety of Letrozole and Gonadotropin Stimulation for Fertility Preservation in Women With Breast Cancer”, The Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, 101 (2016) pp. 1364-1371

11B. K. A. Rodriguez-Wallberg, S. Eloranta et al, “Safety of fertility preservation in breast cancer patients in a register-based matched cohort study”, Breast Cancer Research and Treatment, 167 (2018) pp. 761-769

11C. A. Marklund, “Assisted reproductive technologies for fertility preservation and fertility treatment in young women with cancer”, Thesis for doctoral degree, Department of Oncology and Pathology, Karolinska Instituet, 2021

12. M. Lambertini, V. Fontana et al, “Prospective study to optimize care and improve knowledge on ovarian function and/or fertility preservation in young breast cancer patients: Results of the pilot phase of the PREgnancy and FERtility (PREFER) study”, Breast 41 (2018) pp. 51-56

13. R. Tancredi, E. Iannelli, “Madre dopo il cancro e preservazione della fertilità”, AIMAC 2013 (www.aimac.it/libretti-tumore/madre-dopo-cancro)

14. AIFA, Determina n.1073/2016, pubblicata nella GU n.201 del 29/08/2016

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